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C’era una volta l’osteria romana

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“C’era una volta l’osteria romana”.

L’incipit è quello delle vecchie favole ma, a differenza di queste ultime, nel nostro caso non c’è il lieto fine.

Parliamo infatti di qualcosa che non esiste più, che abbiamo fatalmente perso ma che, nonostante ciò, ha lasciato un’impronta profonda nella tradizione popolare romana e laziale.

Il termine osteria (arcaico: hostaria) deriva dal latino hospes, ad indicare colui che riceveva in casa i forestieri. Locali simili alle osterie erano presenti già nell’antica Roma: erano chiamati enopolium, mentre nei thermopolium venivano servite, oltre alle bevande, anche vivande calde, mantenute alla giusta temperatura in vasi di terracotta incassati nel bancone.

Le osterie, nate all’inizio come punto di ristoro lungo i tragitti che conducevano alle città o nei luoghi di maggior scambio commerciale, utilizzate, agli albori, dagli strati più poveri della popolazione, rappresentavano anche il luogo ove gli uomini trascorrevano un po’ di tempo in compagnia, scambiando quattro chiacchiere accompagnate da un bicchiere di vino e, sovente, dalla presenza di qualche signora disponibile.

Luoghi d’incontro ormai scomparsi, fagocitate da tempi mutati radicalmente e votati ad una ristorazione rapida, poco attenta, al “mordi e fuggi” più esasperato e pazzo, le osterie romane ci riconducono ad una Roma che fu, quando non era raro imbattersi nelle capate, branchi di animali che venivano condotti al macello.

Perfino la Roma degli anni successivi alla breccia di Porta Pia era ancora un fiorire di campi di fave, broccoli e carciofi. Un esempio ne era Via del Carciofolo, scomparsa a causa dell’apertura di Corso Vittorio Emanuele.

E sempre a Roma in quegli stessi anni, la stessa Villa Borghese comprendeva diverse vigne, la più antica delle quali risalente al 1580.

Ed è proprio il vino, l’alimento (in quell’epoca proprio di alimento si deve parlare) intorno al quale è nata e si è sviluppata l’osteria.

L’insegna era solitamente composta da una corona o frasca ( da cui le famose fraschette per indicare le antiche osterie) fatta di edera, quercia o ulivo.

Il vino ne era il cuore e rappresentava spesso un elemento non sottovalutato dagli stessi potenti, regnanti e papi.

 

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Con il pretesto di evitare truffe ai clienti sulla quantità e qualità del vino, ad esempio, Papa Sisto V nel 1588 impose che il vino ( già tassato dai Papi) fosse servito in brocche di vetro prodotte esclusivamente dall’ebreo Meier Maggino di Gabriello e sigillate dalla Camera apostolica.

Un doppio guadagno quindi sia sulla mescita che sul consumo giustificando l’aumento del prezzo con le tasse per limitarne il consumo ed evitare così risse e baruffe, tutelando allo stesso tempo gli avventori che, utilizzando le brocche di vetro, potevano così controllare che il vino stesso non fosse annacquato.

Per la salita al trono pontificio di Innocenzo X, della nobile famiglia Pamphilj, fu concepito un meccanismo idraulico grazie al quale i due leoni egizi alla base della scalinata del Campidoglio furono in grado di versare, per un’intera giornata, rispettivamente vino bianco e vino rosso.

È facile immaginare che gran parte del vino consumato nelle osterie romane provenisse dai vicini Castelli ma sulla sua qualità è legittimo nutrire seri dubbi. È interessante a tal proposito ricordare quale sia l’etimologia del verbo infinocchiare.

Quando l’oste infatti aveva intenzione di servire ai commensali un vino di scarsa qualità o inacidito, era solito servire antipasti a base di finocchio. Il finocchio consumato crudo, con la sua aromaticità, ha infatti la peculiarità di alterare i sapori quasi anestetizzando il cavo orale. In questo modo, i commensali, con il gusto alterato dal finocchio, non erano in grado di accorgersi della truffa attuata dall’oste bevendo senza lamentarsi. Venivano perciò infinocchiati.

OSTERIA ROMANA RITRATTO

L’oste aveva solitamente fama di persona astuta poiché sapeva sapientemente conciliare le necessità ed i bisogni dei suoi avventori con il proprio tornaconto personale. Sempre ben informato grazie alle parole confidate in libertà da persone spesso “alticce”, tentava sempre di trarne un utile profitto. Si pensi al detto “fare i conti senza l’oste”.

Lo stesso Renzo di manzoniana memoria, dopo le negative esperienze vissute nelle osterie nelle quali aveva soggiornato, esclama “ Maledetti gli osti, più ne conosco, peggio li trovo”.

Da ricordare poi l’oste dell’Osteria del Gambero Rosso nel Pinocchio di Collodi che, quasi complice del raggiro attuato dal Gatto e dalla Volpe a danno del burattino, strizzò l’occhio come per dire “ Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!…”

Il vino arrivava a Roma via terra, su carri capaci di portare 500 litri in barili da 50 litri, o per via fluviale direttamente al porto di Ripa Grande.

Si è persa invece totalmente memoria delle vecchie misure di vino: il tubo (1 litro), la foglietta ( ½ litro), il quartino (1/4 di litro), il chierichetto (1/5 di litro), ed il sospiro (1/10 di litro).

Era una Roma molto diversa da quella di oggi, nella quale le osterie, prosecuzione degli ostelli per i pellegrini, costituivano luogo d’incontro anche di poeti, scrittori, artisti.

In via della Maddalena l’Osteria del Moro fu teatro di una delle innumerevoli risse di Caravaggio; Goethe racconta di un amore letterario consumato con la bella Faustina all’Osteria della Campana a Vicolo di Monte Savello; all’Orso, Dante si affacciò per assistere al Giubileo del 1300.

Di alcune osterie, specie dei primi anni del ‘900, c’è ancora qualche testimonianza.

Ad esempio Marietta, in Piazza Spada, era famosa per la qualità del vino che arrivava da Marino; Madonna Bona, così detta per l’avvenente titolare, era famosa per la trippa ed il baccalà in guazzetto.

C’era poi l’osteria Agli uccelli in gabbia nei pressi del Carcere di Regina Coeli a via Della Lungara. I suoi avventori erano i carcerati più abbienti che, beneficiando del particolare regime carcerario dell’epoca, ne frequentavano i locali per gustare le sue famose costolette di abbacchio.

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Si pensi poi al Sor Antonio frequentato da Boccioni per gli spaghetti con le regaglie (frattaglie) e al Paterellaro a Trastevere, famoso per gli spaghetti e per le minestre, che vedeva il poeta Trilussa tra i suoi avventori.

All’osteria ci riporta la stessa maschera romana di Meo Patacca, luogo dove amava mangiare e scambiare chiacchiere con i suoi compari, o Rugantino che, proprio all’osteria di Mastro Titta, lanciò la scommessa che Rosetta sarebbe stata sua.

Come non ricordare poi, venendo a tempi più prossimi, il legame dell’osteria con personaggi quali Pier Paolo Pasolini, Aldo Fabrizi, Giancarlo Fusco.

E chi potrà mai dimenticare come l’osteria fosse il luogo prediletto, per bere e giocare a carte, dal Marchese del Grillo interpretato in modo mirabile da Alberto Sordi?

Ed ancora….chi ricorda Gassman, Manfredi e Satta Flores in “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, riuniti in osteria a mangiare un piatto di lesso alla picchiapò?

L’osteria ha scandito la vita dei romani, nel bene e nel male, strizzando l’occhio per secoli a nobili e popolani, ad artisti ed artigiani, a truffatori e poeti, creando un’atmosfera, viva, reale, conviviale, soprattutto ospitale.

Ed era proprio il senso profondo ed originario di luogo di ospitalità a rendere l’antica hostaria sede unica di condivisione di esperienze, tragedie, drammi, pianti, urla, sberleffi, stornelli.

L’osteria era semplicemente la vita, magari odiata e maleodorante come un vino inacidito o sfrontata come l’espressione di una prostituta, ma era pur sempre la vita, reale, concreta, pulsante.

Chiudo con un tributo a chi delle osterie romane fu assiduo frequentatore e geniale cantore, Trilussa:

Mentre bevo mezzo litro,
de Frascati abboccatello,
guardo er muro der tinello
co’ le macchie de salnitro.
Guardo e penso quant’è buffa
certe vorte la natura
che combina una figura
cor salnitro e co’ la muffa.
Scopro infatti in una macchia
una specie d’animale:
pare un’aquila reale
co’ la coda de cornacchia.
Là c’è un orso, qui c’è un gallo,
lupi, pecore, montoni,
e su un mucchio de cannoni
passa un diavolo a cavallo!
Ma ner fonno s’intravede
una donna ne la posa
de chi aspetta quarche cosa
da l’Amore e da la Fede…
Bevo er vino e guardo er muro
con un bon presentimento:
sarò sbronzo, ma me sento
più tranquillo e più sicuro.

 

 

 

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